Conte di Carmagnola, Chiari e Roccafranca; Signore di Badia Pavese, Borgo Priolo, Candia Lomellina, Casalpusterlengo, Casei Gerola, Castelnuovo Scrivia, Castenedolo, Godiasco, Langosco, Sale, Sanguinetto, Silvano Pietra, Val di Nizza e Vespolate; coraggioso Condottiero, nacque a Carmagnola verso il 1380 e morì a Venezia il 5 maggio del 1432.
Iniziò l’attività militare al servizio del Conte di Biandrate Facino Cane, dalla cui morte in poi curò le vicende della Vedova Beatrice di Tenda poi risposata a Filippo Maria Visconti.
Accanto al Duca milanese partecipò alla riconquista di molte città perdute dopo il decesso di Gian Galeazzo e fu lo stesso Facino a coglierne l'acume, il talento militare e quelle capacità strategiche che lo resero il più grande e discusso Capitano di Ventura visconteo: Bussone piegò i Lucchesi; riconciliò gli Aretini; contenne i Senesi e condizionò le ambizioni del Duca di Urbino, conferendo prestigio e dignità al mercenariato italiano.
Quando Milano insorse per l'assassinio di Giovanni Maria Visconti, Egli affrancò il pavido Filippo Maria dai pericoli posti in essere dai Familiari che ne ambivano la Signoria, annientando Estorre a Monza nel 1413 e riscuotendo come gratifica per questa vittoria il palazzo di via Broletto.
Nel 1415 contrastò Cabrino Fondulo, Pandolfo Malatesta, Giovanni Vignati ed il Marchese di Pescara e, nell’anno successivo, sottrasse a Lotario Rusca il castello di Lecco.
Spezzandone la strenua resistenza, poi, a Trezzo sull’Adda imprigionò Bartolomeo Colleoni e, conquistata Crema, liberò tutti gli antichi domini lombardi riscuotendo rispetto e considerazione per il carattere fermo e la inclinazione alla leale obbedienza al Visconti.
Il 14 giugno del 1418, a margine di un drammatico assedio, recuperò Piacenza; vi impiccò il Figlio e il Fratello di Filippo Arcelli e rapì il Figlio del Signore di Lodi.
Nel 1419 riuscì a ricomporre le ostilità fra Genova e Milano; successivamente combatté contro il Fondulo, Alleato del Malatesta ed occupò Cremona estendendo il dominio da Castelnuovo Bocca d’Adda fino a Bergamo.
L'8 settembre 1420 sconfisse le truppe malatestiane a Brescia e costrinse la città alla capitolazione per fame e sete, consegnandola un mese più tardi a Filippo Maria che vi esercitò inaudita ferocia.
La sua più fulgida impresa fu, tuttavia, condotta nel 1422 contro gli Elvetici che sbaragliò nella cruenta battaglia di Bellinzona, cui seguì l'occupazione di Altdorf.
Fu allora che le sue gesta furono consegnate alla fama: contro il celebre quadrato svizzero consistente di una imperforabile formazione, non aveva scagliato una carica di Cavalleria ma, a ridosso di essa e per l’affondo finale, aveva trasformato i Cavalieri in Fanti corazzati e inattaccabili.
Il Duca lombardo lo compensò con titoli e onori fino a dargli in sposa Antonia, Figlia del Signore di Jerago Pietro Visconti ed alimentando in lui quelle ambizioni che lo resero inviso al paranoico Filippo Maria dal quale si vide presto revocato il comando militare in cambio del governatorato di Genova.
L’incarico, in realtà, mirava a solo allontanarlo da Milano.
A Venezia
Inasprito dalla volubilità del Duca e deciso ad archiviare l’esperienza lombarda, Carmagnola si fece sovvenzionare da Oddino Granetto e si pose al servizio della Serenissima nel marzo del 1425, preferendo appoggiare la Repubblica di Firenze minacciata dal Visconti.
Nominato Capitano Generale della coalizione veneto/fiorentina si acquartierò a Treviso ove vivevano in esilio Giovanni Aliprandi e la moglie Valentina Visconti, Figlia naturale di Bernabò e sorella di Estorre: a Costoro Filippo Maria inviò diversi Legati con l’incarico di pianificare una congiura tesa ad assassinare il Condottiero che senza esitazioni, informato delle circostanze, dispose l’arresto e la decapitazione dell’Aliprandi.
Nel dicembre del 1425 esplose il conflitto tra Milano e Venezia: Carmagnola si distinse nelle vicende alterne non solo per il talento militare ma, soprattutto, per le doti diplomatiche: nella seconda fase della guerra spiccò in campo a Maclodio il 12 ottobre del 1427, assicurando ai Veneziani una formidabile vittoria cui concorse il debutto dei carri balestra.
Maclodio: gli antefatti
In seguito alla sconfitta di Sestri levante; alla stasi romagnola ed alla insurrezione di Brescia, Filippo Maria Visconti fu costretto a ricorrere alla mediazione papale per ottenere una pace conseguendone la Tregua di Venezia sottoscritta il 30 dicembre del 1426.
Il Duca dovette cedere il vercellese ad Amedeo VIII di Savoia; Imola e Forlì a Martino V e Brescia alla Serenissima, ottenendo in cambio i territori occupati dai Fiorentini in Liguria ma, di fatto, mirando a guadagnare tempo non avendo alcuna intenzione di rinunciare alla strategica città.
Nella primavera del 1427, pertanto, la assediò di nuovo.
I Veneziani gli opposero due manovre diversive: l'Esercito di terra col Carmagnola ed una Armata fluviale su Cremona.
Dopo una prima scaramuccia a Gottolengo, Bussone si accampò a tre miglia dalle mura bresciane.
Il Visconti lo spiazzò uscendo da Milano e ponendosi personalmente alla testa delle milizie: lo scontro consumatosi a Cremona si risolse in un nulla di fatto ma, pochi giorni più tardi, Bussone occupò il nodale porto fluviale di Casalmaggiore.
Successivamente, spintosi fino al borgo pavese di Sommo, retrocedette oltre l'Oglio ed il Chiese per assediare Montichiari controllata dai Milanesi, mentre il Capitano generale dell’Esercito visconteo Carlo II Malatesta irrompeva sul territorio di Brescia; si acquartierava con otto bombarde di fronte ad Urago e la circondava malgrado fosse ben difesa da Leonardo ed Antonio Martinengo.
L'8 ottobre Montichiari fu presa dal Carmagnola che, su richiesta del Senato veneziano, il 10 ottobre si insediò ad Urago.
Il 12 ottobre del 1427 l'Esercito visconteo guidato da Carlo II Malatesta si scontrò con le forze della coalizione avversaria capeggiata dal Carmagnola acquartierato da due giorni a Maclodio, donde intendeva spostarsi su Urago percorrendo un sentiero paludoso e fiancheggiato da profondi fossi.
Bernardino Corio racconta che, qualche giorno avanti alla battaglia, il Fante lombardo Nardo Torquato aveva sfidato a duello un Veneziano.
Il Bussone ne aveva consentito lo svolgimento che, distraendo tutti, gli avrebbe permesso di assalire a sorpresa i Viscontei.
Poco uso all'arte bellica e privo di reputazione militare, il Malatesta si presentò sul sito fissato per la contesa assieme a molti Soldati disarmati, malgrado gli avvertimenti di Francesco Sforza e Niccolò Piccinino che, invece non fidandosi, si armarono.
Verso la metà del pomeriggio, mentre la gara era in corso, Carmagnola caricò con la sua formidabile Cavalleria il quartiere nemico prendendo molti Ostaggi ed i carriaggi.
Malatesta divise immediatamente la truppa in due, schierando un’ala a Nord di Maclodio verso Rovato e l’altra sulla via della palude.
Francesco concentrò le proprie risorse contro il centro dello schieramento nemico: Sforza e Piccinino opposero una tenace resistenza ma, se il primo rischiò di essere catturato, il secondo fu ferito mentre Malatesta veniva invece preso assieme ad Antonio della Pergola.
I Veneziani, allora, attuarono una doppia manovra avvolgente la Cavalleria, determinando l’esito della battaglia: i Milanesi furono costretti ad arretrare.
La loro marcia allo scoperto su una strada circondata dall’acquitrino fu disturbata ai fianchi da gruppi di Arcieri e Balestrieri nascosti nei boschi contigui.
Fu una totale disfatta; tuttavia, malgrado sul campo fossero stati schierati più di quarantamila uomini, il numero delle Vittime fu contenuto.
Furono catturati circa diecimila Viscontei mentre Altri, in rotta, si diressero a Pompiano e ad Orzinuovi ove furono ancora battuti e, infine, ripararono a Soncino.
Il Carmagnola fu designato Conte di Chiari e Castenedolo, ma il mite trattamento da lui riservato ai Prigionieri spianò la via ai primi sospetti della Repubblica che ne dispose l’arresto e la decapitazione il 5 maggio del 1432, malgrado la battaglia di Maclodio rappresentasse una delle più pesanti disfatte inferte al Ducato milanese: le mire di Filippo Maria Visconti su Brescia furono archiviate, ma non se ne riconobbe il merito al pugnace e coraggioso Condottiero.
La morte
Dopo il breve trattato di pace del 18 aprile 1428, periodo in cui acquistò casa a Brescia, la ripresa delle ostilità nel 1431 segnò l'inizio delle sventure del Carmagnola.
Egli Tentò invano di sostenere la Flotta veneziana sul Po e la conseguente disfatta accentuò il clima di diffidenza serpeggiante nel Senato della Serenissima, aggravandosi con la ritirata del Cavalcabò da Cremona, perduta proprio per il mancato rincalzo.
Di più: quando gli Ungari dell’Imperatore Sigismondo irruppero sul Friuli, il Carmagnola non riuscì a contenerli sicché a Venezia prese a circolare la voce che Egli si fosse venduto a Filippo Maria Visconti e che avesse tradito la Repubblica.
Si vuole che il Consiglio dei Dieci rinvenisse prove di suoi accordi segreti, a conferma di un ignobile baratto: la signoria di Brescia in cambio del tradimento.
Pertanto, gli fu irrogata a maggioranza e senza indugio la condanna a morte dopo un sommario processo.
Colpevole?
Innocente?
Vittima di invidie?
Di fatto, giunto a Palazzo Ducale la sera dell'8 aprile del 1432 ed accolto con tutti gli onori, gli fu detto che, essendo tardi, avrebbe incontrato l’indomani il Doge Francesco Foscari.
Il Carmagnola mosse allora per tornare all’ormeggio della sua gondola, ma uno dei Gentiluomini che lo aveva scortato lo invitò a dirigersi verso un'altra arcata del palazzo.
Egli allora disse …Questa non è la mia strada…
E l’Altro gli rispose …Oh, sì, sì, è questa la retta via…
Quando vide aprirsi la porta d'accesso alla prigione detta orba, Francesco Bussone comprese e pronunciò la drammatica frase …Sono perduto…
La sera del 5 maggio del 1432, presenti la Moglie e le Figlie, fu decapitato tra le due colonne di San Todaro e San Marco.
La convinzione della sua colpevolezza fu avvalorata dal brutale trattamento che Filippo Maria Visconti riservò al patrizio veneziano prigioniero Giorgio Cornèr, sottoponendolo a devastanti torture per sette anni. Tuttavia al Conte di Carmagnola furono tributate sontuose esequie; fu privatamente sepolto all'interno della chiesa dei Frati ed in seguito fu consentito alla Vedova Antonia Visconti di trasferirne le spoglie nella chiesa milanese di San Francesco Grande.
Lasciò quattro figlie: Margherita, sposa di Bernabò Sanseverino; Elisabetta, coniugata con Francesco Visconti; Luchina, maritata a Luigi dal Verme; Antonia impalmata da Guarnierio Castiglioni.
Carmagnola e la Letteratura
Il Conte di Carmagnola fu la prima tragedia di Alessandro Manzoni e fu composta tra il gennaio del 1816 ed il dicembre del 1819, per essere poi pubblicata nel gennaio del 1820 dal Tipografo Vincenzo Ferrario.
Erano gli anni in cui la Polizia austriaca aveva intensificato la censura e ordinato la chiusura del Conciliatore, guardando con sospetto allo Scrittore.
L’Opera, dedicata all'amico Claude Faauriel, fu preceduta da una prefazione sulle unità drammatiche e sull'uso del Coro costituente una parentesi lirica giusta a dar voce ai sentimenti e alle emozioni dell’Autore.
Sostenendo l’innocenza del Carmagnola, Manzoni vi stigmatizzò le contrapposizioni italiane che impedivano l'unificazione dell’Italia in particolare nell'ultima strofa della Battaglia di Maclodio:
…Tutti fatti a sembianza d'un Solo;
Figli tutti d'un solo Riscatto,
In qual ora, in qual parte del suolo,
Trascorriamo quest'aura vital?
Siam fratelli; siam stretti ad un patto:
Maledetto colui che l'infrange,
Che s'innalza sul fiacco che piange,
Che contrista uno spirto immortal!...
Il carme, composto in endecasillabi e per il Coro in decasillabi, s’incentrò non tanto sulla vicenda storica del Bussone quanto sull’aspetto morale da essa evocato: nella conclusione corale del secondo atto si delinea netta, infatti, la ripulsa per ogni espressione di violenza in nome di una coscienza intimamente religiosa deputata ad accomunare tutti gli Uomini nella fraternità della Fede, poiché Essi tutti sono uguali dinanzi a Dio.
Al debutto nel 1820, l'opera non ebbe consenso di Pubblico né di Critica; fu, anzi, pesantemente attaccata anche dal Drammaturgo francese Victor Chauvet a parer del quale al testo mancava rispetto dell'unità di tempo e di luogo.
In Italia, inoltre, tre interventi anonimi furono pubblicati dalla Gazzetta di Milano e duro fu anche il giudizio della Biblioteca Italiana, parimenti protetto dall’anonimato.
Johann Wolfganf Goethe, per contro, la apprezzò ufficialmente e nel 1827 volle curare l’edizione delle Opere poetiche di Alessandro Manzoni a Jena, con una prefazione in cui veniva parzialmente ripubblicato il primo articolo elogiativo ed un saggio sull'Adelchi.
Ugo Foscolo prese dal Letterato tedesco le distanze.
Per diversi anni la tragedia non fu più rappresentata e solo nell’agosto del 1828 la si recitò, ed ancora con scarso successo, al Teatro Goldoni di Firenze.
Bibliografia
A. Zorzi: La Repubblica del Leone. Storia di Venezia
A. Redaelli, Le grandi battaglie della storia bresciana